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Danni da amianto: per condannare il datore basta la prevedibilità dell’evento

(Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sentenza del 02/08/2017 n. 19270)

Nel caso in cui vengano accertati danni patiti da un lavoratore dipendente per una sua esposizione involontaria all’amianto (od a sostanze tossiche analoghe), durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, non solo vi è il ricorso al Giudice penale (innanzi al quale il datore di lavoro viene chiamato a rispondere dell’imputazione formulata, quale lesioni personali, omicidio colposo, ecc…), ma anche al Giudice del lavoro con conseguente domanda risarcitoria.

E’ ormai regola che vi sia l’accertamento di un nesso eziologico tra la malattia od il decesso del lavoratore e l’ambiente di lavoro, effettuata sulla valutazione di un “qualificato grado di probabilità” fra malattia ed attività lavorativa svolta in condizioni a rischio (cfr. Cass. civ. sez. lav. n. 4721/1998; Cass. civ. sez. lav. n. 8204/2003; Cass. civ. sez. lav. n. 644/2005; cass. civ. sez. lav. n. 23719/2009; cass. civ. sez. lav. n. 18246/2009).

Naturalmente il suddetto vaglio dovrà essere effettuato in maniera oggettiva e concreta, sulla base di consulenze ad hoc e redatte da professionisti specializzati; a questo si allinea anche la recentissima sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, n. 19270 del 2 agosto 2017 che, nel risolvere una complessa vicenda processuale avviata dagli eredi di un lavoratore morto per carcinoma polmonare contro le società presso le quali aveva lavorato, ribadisce la sufficienza dell’accertata esposizione lesiva alle polveri d’amianto del lavoratore durante lo svolgimento della prestazione lavorativa, e dunque l’utilizzo del fattore tossico nell’ambiente lavorativo, a fondare la presunzione di colpevolezza del datore di lavoro e dunque la domanda di risarcimento dei danni alla salute correlati ai sensi dell’art. 2087 c.c.

Quindi, in conclusione, si sta delineando la cristallizzazione del principio secondo il quale“ove le leggi scientifiche non consentano una assoluta certezza della derivazione causale la regola del giudizio nel processo civile è quella della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non, criterio che non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa – statisitica della frequenza di classi di eventi (c.d. probabilità quantitativa), che può anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (c.d probabilità logica).” (Cass. S.U. n 576/2008).

Nel caso di specie, invero, per quanto fosse stata esclusa in sede di ctu la efficienza causale esclusiva dell’esposizione all’amianto rispetto all’insorgere della malattia, data la presenze di altre equivalenti cause da sole sufficienti a provocarla (fumo di sigaretta e pregressa malattia polmonare), l’aver aumentato il rischio di contrarre la patologia attraverso la stessa esposizione, e nel non averla impedita, rendono quest’ultima “causa altamente probabile” della malattia e, quindi, prova sufficiente della sussistenza del nesso di causalità tra attività lavorativa e danno.

Da (ciò ne deriva la responsabilità colposa dell’azienda per non aver adottato tutte le cautele necessarie a prevenire ed evitare il danno alla salute dei propri dipendenti, prima fra tutte quella di non utilizzare l’amianto nelle proprie lavorazioni, dacchè la sua pericolosità era nota sin da prima del D.P.R. n. 1124/1965 con la disciplina del D.P.R. n. 303/1956, cautele, conclude la Corte, che vanno individuate non con riferimento alla specifica patologia ma al generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore, “essendo questo l’evento che l’art. 2087 c.c. ed il D.P.R. n. 303 del 1956 mirano a prevenire”.

(Avv. Antonio Morrone, fonte Altalex)


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